#FOODMATCH19 RECAP: NOI C'ERAVAMO!
di Roberta Signorino Gelo
Tempo lettura: 2 minuti
#maps4business è stato l’hashtag ufficiale di quest’anno e rappresenta una allusione a tutte le vie di crescita per avere successo nel settore del Food&Beverage. Stiamo parlando dell’evento Food Match 2019, convegno organizzato da Gruppo Food e da Facebook e svoltosi lo scorso 28 Febbraio presso la sede de Il Sole 24 Ore di Milano.
Giunto ormai alla sua quinta edizione il Food Match, che vede ogni anno il confronto tra l’industria agroalimentare italiana e il retail sugli ultimi trend del settore, quest’anno si è focalizzato sull’innovazione e sulla rivoluzione digitale e ha visto la partecipazione di numerosi personaggi di spicco aventi differenti background.
Ad aprire le danze è stato lo scrittore Alessandro Baricco, autore di “The Game – Le mappe per leggere la rivoluzione digitale”. Egli, definendo il mondo digitale “un sistema con cui siamo in grado di tradurre ogni pezzo di mondo in un numero”, ha fornito una visione semplice e completa di ciò che è e cosa rappresenta la digitalizzazione, descrivendone dapprima tutti i vantaggi (come quello di esprimere liberamente il proprio pensiero) ma esaltando contemporaneamente il bisogno costante di ritrovare un senso di umanità e naturalità.
Christian Centonze, Food Industry Director di Nielsen, assumendo una prospettiva più economica ha successivamente sottolineato come non è mai stato così importante come in questo periodo costruire attivamente relazioni con i clienti. La loro conoscenza e la capacità di catturare l’attenzione saranno infatti i nuovi vantaggi competitivi delle aziende: occorre condivisione di informazioni per creare valore, in poche parole quello che occorre è l’agilità. Da qui nasce la nuova accezione del punto vendita, il quale diventa un “media” che deve essere in grado di dare un’esperienza sempre più coinvolgente al cliente. Il futuro? Ruoterà principalmente su 3 tematiche: la frammentazione, l’impazienza e l’attenzione.
Cosa vuol dire dunque essere agili? Vuol dire saper coinvolgere in maniera molto rapida i consumatori, capire come essi entrano in contatto con il modo in cui le aziende comunicano con loro. Jenny Bullis, EMEA Head of Marketing Science Facebook ha spiegato tale concetto illustrando come un messaggio pubblicitario ottimizzato per mobile crea molto più engagement dello stesso fruito in un formato standard per tutti i canali utilizzati dal consumatore.
Ponendo il focus sempre più sul Food&Beverage, il Market Research Director di Blog Meter Alberto Stracuzzi ha fornito dei dati molto interessanti riguardo ciò di cui i consumatori parlano e quello che condividono sui social network: dolci e dessert seguiti dalla categoria pizza sono stati i protagonisti di più di 9 milioni di post nell'ultimo anno. Tali dati fanno intuire come i canali social rappresentino per le aziende del settore una grande opportunità per avere visibilità.
Prima di concludere la mattinata con la premiazione della quinta edizione di Prodotto Food, concorso annuale che premia i prodotti più innovativi di diverse categorie merceologiche, la mattinata è proseguita con una tavola rotonda che ha fornito ricchi spunti sulla tematica del dialogo tra consumatore e brand. Moderata dalla direttrice Food Maria Cristina Alfieri, il dibattito si è svolto tra Luca Colombo (Country manager Facebook Italia), Renato Roca (Direttore Marketing Findus Italia), Vitaliy Novikov (Country General Manager e CEO per l’Italia di Coca-Cola Hellenic Bottling Company) e Giorgio Santambrogio (Presidente di ADM).
Tra gli spunti più importanti, l’esigenza di raccontare il prodotto e la storia del prodotto; l’innovazione è importante ma va unita all’aspetto umano e relazionale e tale connubio rappresenta il futuro del retail. Infine si ricorda l’utilizzo della tecnologia in-store per educare il consumatore quale ottima opportunità per sfruttare i trend in crescita dei prodotti “Free From” e “Rich in”.
Qual è dunque il trend emergente? La normalità. Come ha affermato nel suo intervento la food blogger Chiara Maci “La gente vuole l’imperfezione. Le persone cercano il difetto perché cercano la realtà. Un consiglio alle aziende? Non nascondere i propri limiti: avvicinano alle persone.
Dolce&Gabbana vs Cina: come rovinare la tua brand reputation
di Federica Montalbano
Tempo di lettura: 5 minuti
La scorsa settimana abbiamo assistito ad un teatrino tutto italiano che però ha coinvolto l’intero mercato mondiale del lusso e della moda.
Partiamo dall’inizio.
Il primo atto si apre con delle pubblicità raffiguranti una modella cinese che racchiude tutti i cliché di quella cultura: kimono, ambiente decorato con oggetti che richiamano la cultura asiatica e l’uso delle bacchette per mangiare il cibo. Il cibo in questione però non era cinese bensì italiano. Vi starete chiedendo: dov’è il problema? Il punto è proprio questo. Prima di iniziare una campagna di marketing in una cultura diversa dalla nostra bisogna analizzarla e capire la sensibilità della popolazione per evitare ripercussioni sull'azienda. La ragazza nello spot mangiava cibi italiani quali la pizza, gli spaghetti e il cannolo siciliano e proprio su quest’ultimo la voce fuori campo propinava doppi sensi prendendola in giro con frasi del tipo “è troppo grosso per te?”.
Nel secondo atto invece, dopo questa chiara offesa alla cultura cinese, tutti si aspettavano delle scuse da manuale che però non sono arrivate. Al loro posto si è assistito a commenti contro il popolo cinese accusato di puzzare, di essere ignorante e mafioso.
Il giorno dopo è andato in scena il terzo atto con delle scuse poco sentite e piene di errori da parte di Stefano Gabbana e Domenico Dolce. La domanda sorge spontanea: non potevate pensarci prima?
Non stiamo parlando di una commedia di Totò o di una serie tv di Netflix ma del caso Dolce e Gabbana vs Cina.
Per la promozione della propria linea in Cina, uno dei grandi marchi del luxury italiano come D&G, ha deciso di organizzare un grande evento a Shangai. L’hashtag scelto per l’occasione avrebbe dovuto essere #DGTheGreatShow. La sfilata attendeva 1500 invitati, tra cui attori, cantanti e membri dello spettacolo molto conosciuti nel paese e i costi organizzativi ammonterebbero intorno a 12 milioni di euro. La scelta sbagliata della casa di moda però è stata nella campagna di comunicazione “DGLovesChina” organizzata per l’occasione, che prevedeva tre video in cui una ragazza cinese mangiava cibo italiano. I video diffusi sul social network più popolare della Cina, Weibo, hanno mosso in poche ore le indignazioni del popolo asiatico, ferito per il trattamento che la casa di moda aveva riservato alla propria cultura.
Su Instagram DietPrada, da sempre famoso per il suo atteggiamento molto critico verso il fashion business, critica i tre spot di D&G. Stefano Gabbana avvezzo alle polemiche social, non si tira indietro di fronte alle critiche e risponde offendendo la cultura cinese e peggiorando la situazione in cui la sua azienda già si trovava. Dopo la divulgazione di questa chat, tutti gli e-commerce cinesi hanno eliminato dai loro stock i prodotti D&G e molti VIP invitati alla sfilata hanno sabotato l’evento che per questo è stato annullato. Sul web circolavano video in cui venivano bruciati e tagliuzzati i vestiti e gli accessori della maison.
Con il suo messaggio Stefano Gabbana non ha solo bruciato 1/3 del suo fatturato ma ha anche causato gravi danni alla reputazione della sua società.
Warren Buffett ha detto che “ci vogliono vent’anni per costruirsi una reputazione e cinque minuti per perderla. Se lo tieni a mente agirai in maniera diversa.” Questo ovviamente non è affiorato nella mente del proprietario di D&G, anche perché per giustificarsi dell’accaduto ha dichiarato che il suo account è stato hackerato.
Nel bel mezzo della crisi reputazionale che la maison sta affrontando, con un giorno di ritardo arriva l’atteso video di scuse, in cui i due proprietari del brand D&G si impegnano a far sì che ciò non accada mai più e che faranno qualcosa di più grande per il mercato cinese. Scuse però che non convincono molti. Si possono notare molti errori, per esempio: il video è mal recitato e con frasi fuori luogo. Non bisogna fare delle scuse solo per il mero dovere di doverle fare, con voce rotta e facce chiaramente compromesse dalla notte insonne passata a pensare alla grande crisi in cui sono stati travolti, ma delle scuse sincere e sentite.
La reputazione è un valore inestimabile e nell'era del web 2.0, la rete non dimentica, ma amplifica i tuoi errori. Il mercato asiatico fra un paio di mesi dimenticherà questa storia, così come la dimenticheremo anche noi, ma la rete avrà in mano tutto, pronta a farlo riaffiorare quando sarà necessario.
Così come quando Domenico Dolce si era schierato a favore della famiglia tradizionale sostenendo di non essere d’accordo al concepimento di un figlio da madre surrogata. Sul web era scoppiata la polemica con i sostenitori dei diritti dei gay, ricevendo le indignazioni anche di Elton John che aveva difeso i propri figli nati appunto da madre surrogata.
Già quest’anno Stefano Gabbana dal suo profilo Instagram aveva commentato una foto di Selena Gomez con “è proprio brutta”; la star non si è pronunciata su questo episodio ma per lei lo hanno fatto i suoi fan e Miley Cyrus.
Potremmo continuare con vari casi in cui il brand D&G è stato coinvolto in scandali causati dai suoi proprietari, ma lascio al network questo arduo compito. A mio parere Stefano Gabbana e Domenico Dolce dovrebbero limitarsi a fare i sarti e designer per la loro società e lasciare spazio al team di social media manager della loro azienda anche se un errore dobbiamo addebitarlo anche a loro in tutta questa storia.
Senza dubbio in futuro il team di comunicazione analizzerà bene la cultura e la tradizione del mercato in cui intende approdare e si spera che in futuro i due designer non commettano altre sciocchezze con le loro reazioni. Alla fine a rimetterci è sempre l’azienda e soprattutto il brand, che perde valore e fiducia agli occhi dei consumatori, ma anche dei VIP che non si sentono più di voler rappresentare un marchio di cui non condividono i valori e scelte.
Quello di Dolce e Gabbana è un chiaro caso di crisi reputazionale mal gestita, in cui le aziende dovrebbero cercare di non inciampare mai o almeno di attutire i colpi con stile.
Novità da Google Maps: arrivano le chat
di Veronica Amato
Tempo di lettura: 2 minuti
"See your messages with local businesses in Google Maps". Con un post su un blog aziendale, Google annuncia così la nuova funzione per Maps. Ma di cosa si tratta esattamente?
Fra non molto sarà reso disponibile dalle mappe di Google il servizio di chat che consentirà a tutti gli utenti di entrare direttamente in contatto con ristoranti, pasticcerie, negozi d’abbigliamento, cinema e altre attività aderenti.
L'implementazione pensata da Google è completa: partendo dall'app My Business, i gestori di attività commerciali potranno inviare e ricevere messaggi, ma non sarà solo questa l’unica novità apportata. Sarà infatti inserita una sezione recensioni riservata a tutti i clienti. Le aziende potranno così rispondere alle recensioni, vedere i clienti che seguono l'attivita e sviluppare quindi un'interazione a 360°.
Non è tutto: con il nuovo tasto Pubblica si potranno caricare foto, condividere le informazioni delle imprese commerciali, creare delle offerte e ricevere le notifiche ogni volta che il cliente interagisce con la scheda di Google. Il tutto grazie a My Business.
L’idea chiave secondo cui si basa Google nell’apportare innovazione tecnologica è che i singoli individui abbiano la necessità di autogestirsi, ed è proprio in quest'ottica che interviene la società nella ricerca di soluzioni alle esigenze dei propri clienti.
Una strategia customer oriented che vede il colosso tecnologico in continua crescita. Da Chrome a Maps, da Calendar a Drive e Fit, ecco dunque come Google continua ad ampliare l'assortimento di servizi offerti cercando di rendere le proprie piattaforme pratiche e facilmente utilizzabili da qualsiasi tipologia di utente, consumer o business che siano.
Quando un’esperienza divertente può diventare la base di un business. È Flying Tiger mania!
di Roberta Signorino Gelo
Tempo di lettura: 3 minuti
Temperamatite a forma di naso, cartelle a pois, pupazzi di forma quadrata e caramelle all’ananas e liquirizia. Questi e molti altri, sono gli oggetti venduti dall’eccentrica azienda a marchio Flying Tiger, danese di nascita e ormai affermata in tutta l’Europa e oltre nel settore dell’oggettistica. Da pochi giorni è approdata anche a Parma e si può ancora osservare una fila interminabile di persone di tutte le età davanti allo store della trafficata via D’Azeglio.
Ma qual è l’elemento che rende questa catena di negozi irresistibile? Quello che Flying Tiger fa sostanzialmente è divertire i clienti con una filosofia che si basa sul regalare un’esperienza attraverso la semplice visita dei loro punti vendita. Per far ciò, questi ultimi presentano un’accurata strutturazione che consente di riunire in una composizione organica la numerosità dei piccoli prodotti venduti che solo apparentemente sembrano non aver nulla in comune. Tutto è dominato da un arredamento tipicamente scandinavo e vi è una perfetta fusione tra il bianco delle attrezzature espositive e gli accesi colori della merce esposta, risaltata ulteriormente da numerose luci.
Le varie leve di visual merchandising utilizzate hanno comunque un altro obiettivo finale, che è quello di stimolare gli acquisti d’impulso puntando sulla parte emozionale che incide sulla decisione di acquisto. Il motore che consente tutto questo è dato anche dal layout del punto vendita che crea un percorso obbligato per il consumatore, il quale avrà la possibilità di ammirare ogni angolo e soffermarsi per provare ogni piccolo e divertente gadget. L’aspetto esperienziale è inoltre connesso alla spensierata musica di sottofondo, spesso collegata alle festività del momento (ad esempio le melodie natalizie a dicembre) e ad accurati elementi di layout merceologico che raggruppano i prodotti per occasione di consumo: l’insieme “bicchieri colorati, bandierine, piattini, e stampini per biscotti” evocherà l’idea di una festa, e così via con gli articoli di cancelleria, sportivi, per l’arredamento, per il bagno e gli alimentari. Immerso in questo mix, il consumatore non può che rimanere attratto e divertito da questi stravaganti oggettini e si ritroverà probabilmente, alla fine del suo percorso, ad aver acquistato articoli che non avrebbe mai immaginato prima del suo ingresso.
Quello che rende Flying Tiger un business ampiamente differenziato è la scelta voluta di andare controcorrente: essa ha deciso infatti, e proprio su questo si fonda il suo punto forte, di operare esclusivamente offline in un’era in cui gli e-commerce costituiscono margini di profitto rilevanti per la maggior parte delle grandi imprese affermate nei mercati internazionali.
Inoltre, fino agli inizi del 2016, i suoi top marketer non avevano la minima idea di come l’azienda avesse avuto un tale successo anche sulle piattaforme social; Klauss Vemmer, Head of Global Marketing del brand per l’appunto affermò «Abbiamo 1.4 milioni di followers e non sappiamo chi siano. È senz’altro un bene ma come dovremmo comunicare con loro? Abbiamo intrapreso campagne, ci stiamo spingendo in nuovi mercati, ma non stiamo realmente lavorando in maniera strutturata e non stiamo imparando nulla». Tale circostanza scaturiva dal fatto che il vantaggio competitivo creato era frutto di una strategia non intenzionale, scaturita dall’irresistibilità dei piccoli oggetti venduti, dal design, dal loro prezzo imbattibile e da un passaparola generale da parte dei clienti che venivano completamente conquistati dai punti vendita. Fortunatamente, nel corso dello stesso anno, Flying Tiger ha compiuto dei passi da gigante tramite adeguati piani di social media marketing che l’hanno resa attiva sulle piattaforme online, un processo di re-branding e ulteriori rafforzamenti dell’identità aziendale.
Flying Tiger è un caso di successo che dimostra come ancora oggi nel 2018 il canale fisico abbia ancora la sua importanza e come un’esperienza divertente possa risiedere alla base di un business.
E tu sei già stato rapito da questo brand?
Finalmente Starbucks in Italia! Cosa aspettarsi e cosa c’è dietro l’apertura dello store più discusso dell’ultimo periodo
Di Roberta Signorino Gelo
tempo di lettura: 3 minuti
Fan italiani della famosissima catena di caffetterie in american style, siete stati finalmente accontentati!
È avvenuta infatti pochissimi giorni fa, il 7 settembre nel cuore di Milano, l’attesissima inaugurazione del primo punto vendita a marchio Starbucks sul territorio italiano. La frenesia e il desiderio di assaggiare tutti i prodotti del brand non è tardata ad arrivare e a distanza di 4 giorni infatti piazza Cordusio è ancora dominata da una fila interminabile di gente che vuole varcare l’ingresso del nuovo store.
Molti clienti tuttavia non hanno trovato esattamente ciò che si aspettavano: la nuova caffetteria non è come gli altri Starbucks comuni in giro per il mondo, ma è una “Reserve Roastery”. Si tratta di punti vendita ibridi a metà tra una caffetteria e un impianto di torrefazione, al mondo limitatissimi e presenti in città altrettanto importanti come Seattle, Shangai o Chicago.
Dimenticate dunque i classici frappuccini e il bicchiere di plastica con scritto il proprio nome.
L’esperimento italiano di Starbucks, che ha adottato lo storico palazzo delle poste come location, sta utilizzando degli approcci molto diversi.
Si va da un logo totalmente differente raffigurante una R al di sotto di una stella (il classico marchio lo troviamo solo sporadicamente) ad uno store altamente esperienziale: i colori dominanti vanno dal bronzo al marrone, richiamando quello del caffè, e la scelta degli arredi lo rende un luxury store dove il cliente vive un’esperienza a 360 gradi avendo la possibilità di osservare l’intero processo di torrefazione dai chicchi alla bevanda pronta. L’atmosfera richiama per certi versi anche la famosa Fabbrica di cioccolato dell’omonimo film del 2005, grazie alla colorata tostatrice e i tubi di rame sparsi per il soffitto. Anche la comunicazione out of store non manca, con la piazza ricolma di enormi cartelloni raffiguranti il logo e tutte le varietà di caffè in vendita all’interno dello store.
Assodato il fatto che tale Starbucks non è il classico luogo di ritrovo e di pausa dello studente medio come accade comunemente nel resto del mondo, e ciò lo dimostra anche il salatissimo menù che offre caffè espresso a 1,80€ e fette di torta a 6,50€ (queste ultime per altro italianissime, grazie alla partnership con il colosso italiano Princi leader nel settore bakery), in realtà c’è dell’altro dietro all’apertura dello store più discussa dell’anno.
La Reserve Roastery di Milano è la prima nata in Europa e ciò non è un caso. Come anticipato prima, oltre alla veste di experience cafè vista dagli occhi del consumatore, essa nasce come impianto di produzione ma soprattutto centro di distribuzione. La tostatrice rimarrà in funzione 24 ore su 24 con una capacità produttiva giornaliera di circa 3450 kg di caffè tostato in grani; di questi solo una piccola porzione viene destinata al consumo all’interno del locale, perché la maggioranza verrà confezionato e spedito in tutte le caffetterie presenti in Europa.
Quella di accrescere la notorietà e la fedeltà al brand principale è dunque solo una finalità accessoria dell’approdo di Starbucks in Italia, poiché la principale è quella di consentire alla multinazionale americana un consistente risparmio di costi in termini di logistica. Fino ad oggi infatti l’unico produttore presente in Europa si trovava nei Paesi Bassi e, non riuscendo a provvedere all’intero fabbisogno degli store nei paesi vicini, arrivavano quantità aggiuntive dagli Stati Uniti con una conseguente accentuazione dei costi di trasporto.
Tirando le somme, nonostante molti amanti del frappuccino delusi, nazionalisti legati alla tradizione del caffè italiana e denunce già ricevute a casa Starbucks per dei prezzi ritenuti eccessivi, il nuovo investimento di Schultz sembra averci preso un’altra volta. Nel weekend è stata registrata in media un’ora di attesa per accedere al locale e 40 minuti per poter ordinare al corner dell’experience bar all’interno. È già stata stimata la possibilità che i prezzi delle case nei dintorni dello store possano aumentare per non parlare dei fan che si sono mossi lungo tutta la penisola, ansiosi di poter vivere un’esperienza unica e di poterla condividere nel mondo social.
L’Italia era già pronta, Starbucks ha solamente pensato bene di rispettare la tradizione del caffè nel paese in cui il caffè non è solo una bevanda, ma un rito.