1. Covid-19: figlio del traffico aereo ma non solo
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Il coronavirus, nato dal mercato alimentare di Wuhan, è esploso, in un brevissimo lasso di tempo, in una pandemia globale, costringendo prima la Cina e poi la maggior parte dei paesi nel mondo, ad assumere azioni contenitive alla disperata ricerca di contrastarlo.
Oggigiorno più di mezzo milione di persone in tutto il globo sono state contagiate, i morti sfiorano i 30.000 e continueranno indubbiamente a crescere; la risposta globale è forte e senza ripensamenti, per la prima volta dalla fine del secondo dopoguerra il mondo come lo conosciamo si è fermato e la sfumatura di libertà che possedevamo ci è stata sottratta.
I media, dal canto loro, persistono giorno dopo giorno ad informarci riguardo la situazione, dipingendo un quadro che ci appare sempre più insormontabile, cercando in tutti i modi di fornire notizie e servizi più che completi riguardo la situazione e i suoi possibili risvolti, in un ambiente però ricolmo di isteria generale.
In tutto questo circolare di informazioni, fake news e flash mob, una cosa è certa: si sta facendo, nel limite delle proprie capacità, tutto il possibile per tornare alla normalità. Una domanda però sorge spontanea: che cosa possiamo imparare dalla nostra risposta al COVID-19 e come possiamo applicarla al cambiamento climatico?
Si stima che ogni anno muoiano dalle 4.5 alle 7 milioni di persone per via dell’inquinamento aereo generato da combustibili fossili, queste notizie però raramente sono presenti nelle headline delle maggiori testate giornalistiche, è quindi quasi ovvio dire che se avessimo reagito ai cambiamenti climatici nello stesso modo in cui stiamo affrontando il coronavirus, forse saremmo già sulla strada per un futuro senza CO2.
Indubbiamente ci stiamo riferendo a due diversi tipi di crisi: se da un lato il cambiamento climatico ha un andamento graduale nel corso delle decadi, dall’altro il SARS-CoV-2 possiede un andamento molto più repentino, essendo percepito anche dalla massa con una relazione diretta tra causa-effetto: è noto infatti che il virus viene trasmesso principalmente tramite goccioline del respiro infette, ed è per questo motivo che sappiamo come contenerlo svolgendo diverse azioni come quella di lavarsi le mani, rispettare la quarantena e così via. È chiaro, quindi, il rapporto che intercorre tra l’azione di proteggersi e la conseguenza di risultare negativi al virus, mentre è meno chiaro, invece, questo rapporto nel caso della crisi climatica. Questo non solo per la sua graduale espansione, ma anche per via di diversi leader politici o aziende operanti nei combustibili fossili, che mettono in discussione la sua possibile esistenza, per cui non è ancora evidente la relazione tra azioni e conseguenze relative all’inquinamento ambientale.
Non solo, recenti studi, svolti anche dall’ OMS, hanno dimostrato come i cambiamenti climatici – e di conseguenza il cambiamento degli habitat – renda gli animali – già portatori naturali – vettori di questi nuovi virus contagiosi, inoltre la sovrappopolazione, la frequenza e la rapidità di spostamenti di persone non fanno altro che alimentare questo processo.
Come spiega la virologa Ilaria Capua:«Se intervieni su un ecosistema e, nel caso, lo danneggi, questo troverà un nuovo equilibrio. Che spesso può avere conseguenze patologiche sugli esseri umani»,poterebbe avvenire il cosiddetto fenomeno «Spillover», cioè un virus presente solo in determinati animali o ecosistemi che effettua un salto di specie arrivando all’uomo.
Nel caso del coronavirus, le ricerche si concentrano sulla giungla della Cina e sulle popolazioni di pipistrelli locali, ugualmente al caso dell’Ebola nel continente africano.
Appare quindi evidente la stretta relazione tra crisi climatica e pandemie, specialmente se allarghiamo lo spettro di analisi al lungo periodo. Di questo passo i ghiacciai continueranno inesorabilmente il loro processo di scioglimento, liberando nell’ aria non solo gas naturali, ma anche virus preistorici, sconosciuti all’uomo. Un esempio è il caso del batterio Bacillus Anthracis in Russia, apparso successivamente agli esperimenti effettuati in una determinata zona della siberia relativi appunto all’antrace; diversi scienziati hanno scoperto che lo scioglimento del permafrost sta liberando nell’aria non solo spore e batteri rimasti congelati per migliaia di anni, ma anche risultati di vecchi test, rendendo questi batterio potenzialmente pericoloso per le comunità locali, come avvenne nel 2016, dove un ragazzo morì in seguito al batterio in questione – in seguito si scoprì che il virus proveniva proprio da una carcassa scongelata di una renna morta in seguito a un’epidemia di 75 anni prima.
C’è preoccupazione anche in altre zone dell’estremo Nord, dove sono tornati in vita virus del vaiolo e dell’influenza Spagnola, oppure la presenza di virus preistorici come il «Mollivirus sibericum» caratterizzato da una notevole dimensione e da una complessità genetica molto più elevata rispetto a virus comuni, che il nostro organismo non riconosce e potrebbe non essere attrezzato a combattere. A dare l’allarme è stato anche il WWF in un report pubblicato i giorni scorsi «virus e batteri, alla base delle più importanti pandemie dell’ultimo ventennio, erano al principio innocui, fino a quando la selvaggia distruzione degli ecosistemi ne ha aumentato la pericolosità e la diffusione».
Una magra consolazione da tutta questa situazione è stata la riduzione dell’inquinamento dell’aria in Cina nel mese di febbraio, rispetto al mese di gennaio, per circa un quarto grazie al minore utilizzo di combustibili fossili nelle industrie e nei trasporti stradali e aerei. Tuttavia, l’impatto sul medio-lungo termine di questo calo della domanda energetica potrebbe essere limitato: l’industria cinese, infatti, possiede un ampio margine di flessibilità per reagire a situazioni di questo genere ed è in grado di far ripartire la produzione quanto e più di prima, in modo da recuperare il terreno perso. In questo caso, le emissioni potrebbero tornare a salire rapidamente, con il risultato che la media annua della CO2 alla fine del 2020 potrebbe essere sostanzialmente analoga, o poco più bassa, rispetto ai valori del 2019.
Indipendentemente dai valori che si avranno a fine anno è fondamentale che le autorità e le masse capiscano che la crisi climatica non è a se stante, e per quanto possa sembrare banale e ripetitivo, ogni azione corrisponde ad una reazione, per cui tutte le conseguenze a cui andremo in contro nei prossimi anni non riguardano solamente l’innalzamento di maree, estati e inverni più rigidi, ma anche il rischio di interfacciarsi con virus sempre più aggressivi che potrebbero mettere a repentaglio il destino di tutti noi e della nostra specie.
Il collegamento tra coronavirus e ambiente è diretto e privo di fraintendimenti, se c’è qualcosa che possiamo imparare da tutto questo non è tanto di importanza civile, ma sociale, e riguarda il rispetto e la salvaguardia del nostro pianeta; e come ormai si dice da tempo, there’s no planet B.