Dolce&Gabbana vs Cina: come rovinare la tua brand reputation

di Federica Montalbano

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La scorsa settimana abbiamo assistito ad un teatrino tutto italiano che però ha coinvolto l’intero mercato mondiale del lusso e della moda.

Partiamo dall’inizio.

Il primo atto si apre con delle pubblicità raffiguranti una modella cinese che racchiude tutti i cliché di quella cultura: kimono, ambiente decorato con oggetti che richiamano la cultura asiatica e l’uso delle bacchette per mangiare il cibo. Il cibo in questione però non era cinese bensì italiano. Vi starete chiedendo: dov’è il problema? Il punto è proprio questo. Prima di iniziare una campagna di marketing in una cultura diversa dalla nostra bisogna analizzarla e capire la sensibilità della popolazione per evitare ripercussioni sull'azienda. La ragazza nello spot mangiava cibi italiani quali la pizza, gli spaghetti e il cannolo siciliano e proprio su quest’ultimo la voce fuori campo propinava doppi sensi prendendola in giro con frasi del tipo “è troppo grosso per te?”.

Nel secondo atto invece, dopo questa chiara offesa alla cultura cinese, tutti si aspettavano delle scuse da manuale che però non sono arrivate. Al loro posto si è assistito a commenti contro il popolo cinese accusato di puzzare, di essere ignorante e mafioso.

Il giorno dopo è andato in scena il terzo atto con delle scuse poco sentite e piene di errori da parte di Stefano Gabbana e Domenico Dolce. La domanda sorge spontanea: non potevate pensarci prima?

Non stiamo parlando di una commedia di Totò o di una serie tv di Netflix ma del caso Dolce e Gabbana vs Cina.

Per la promozione della propria linea in Cina, uno dei grandi marchi del luxury italiano come D&G, ha deciso di organizzare un grande evento a Shangai. L’hashtag scelto per l’occasione avrebbe dovuto essere #DGTheGreatShow. La sfilata attendeva 1500 invitati, tra cui attori, cantanti e membri dello spettacolo molto conosciuti nel paese e i costi organizzativi ammonterebbero intorno a 12 milioni di euro. La scelta sbagliata della casa di moda però è stata nella campagna di comunicazione “DGLovesChina” organizzata per l’occasione, che prevedeva tre video in cui una ragazza cinese mangiava cibo italiano. I video diffusi sul social network più popolare della Cina, Weibo, hanno mosso in poche ore le indignazioni del popolo asiatico, ferito per il trattamento che la casa di moda aveva riservato alla propria cultura.

Su Instagram DietPrada, da sempre famoso per il suo atteggiamento molto critico verso il fashion business, critica i tre spot di D&G. Stefano Gabbana avvezzo alle polemiche social, non si tira indietro di fronte alle critiche e risponde offendendo la cultura cinese e peggiorando la situazione in cui la sua azienda già si trovava. Dopo la divulgazione di questa chat, tutti gli e-commerce cinesi hanno eliminato dai loro stock i prodotti D&G e molti VIP invitati alla sfilata hanno sabotato l’evento che per questo è stato annullato. Sul web circolavano video in cui venivano bruciati e tagliuzzati i vestiti e gli accessori della maison.

Con il suo messaggio Stefano Gabbana non ha solo bruciato 1/3 del suo fatturato ma ha anche causato gravi danni alla reputazione della sua società.

Warren Buffett ha detto che “ci vogliono vent’anni per costruirsi una reputazione e cinque minuti per perderla. Se lo tieni a mente agirai in maniera diversa.”  Questo ovviamente non è affiorato nella mente del proprietario di D&G, anche perché per giustificarsi dell’accaduto ha dichiarato che il suo account è stato hackerato.

Nel bel mezzo della crisi reputazionale che la maison sta affrontando, con un giorno di ritardo arriva l’atteso video di scuse, in cui i due proprietari del brand D&G si impegnano a far sì che ciò non accada mai più e che faranno qualcosa di più grande per il mercato cinese. Scuse però che non convincono molti. Si possono notare molti errori, per esempio: il video è mal recitato e con frasi fuori luogo. Non bisogna fare delle scuse solo per il mero dovere di doverle fare, con voce rotta e facce chiaramente compromesse dalla notte insonne passata a pensare alla grande crisi in cui sono stati travolti, ma delle scuse sincere e sentite.

La reputazione è un valore inestimabile e nell'era del web 2.0, la rete non dimentica, ma amplifica i tuoi errori. Il mercato asiatico fra un paio di mesi dimenticherà questa storia, così come la dimenticheremo anche noi, ma la rete avrà in mano tutto, pronta a farlo riaffiorare quando sarà necessario.

Così come quando Domenico Dolce si era schierato a favore della famiglia tradizionale sostenendo di non essere d’accordo al concepimento di un figlio da madre surrogata. Sul web era scoppiata la polemica con i sostenitori dei diritti dei gay, ricevendo le indignazioni anche di Elton John che aveva difeso i propri figli nati appunto da madre surrogata.

Già quest’anno Stefano Gabbana dal suo profilo Instagram aveva commentato una foto di Selena Gomez con “è proprio brutta”; la star non si è pronunciata su questo episodio ma per lei lo hanno fatto i suoi fan e Miley Cyrus.

Potremmo continuare con vari casi in cui il brand D&G è stato coinvolto in scandali causati dai suoi proprietari, ma lascio al network questo arduo compito. A mio parere Stefano Gabbana e Domenico Dolce dovrebbero limitarsi a fare i sarti e designer per la loro società e lasciare spazio al team di social media manager della loro azienda anche se un errore dobbiamo addebitarlo anche a loro in tutta questa storia.

Senza dubbio in futuro il team di comunicazione analizzerà bene la cultura e la tradizione del mercato in cui intende approdare e si spera che in futuro i due designer non commettano altre sciocchezze con le loro reazioni. Alla fine a rimetterci è sempre l’azienda e soprattutto il brand, che perde valore e fiducia agli occhi dei consumatori, ma anche dei VIP che non si sentono più di voler rappresentare un marchio di cui non condividono i valori e scelte.

Quello di Dolce e Gabbana è un chiaro caso di crisi reputazionale mal gestita, in cui le aziende dovrebbero cercare di non inciampare mai o almeno di attutire i colpi con stile.


Quando un’esperienza divertente può diventare la base di un business. È Flying Tiger mania!

di Roberta Signorino Gelo
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Temperamatite a forma di naso, cartelle a pois, pupazzi di forma quadrata e caramelle all’ananas e liquirizia. Questi e molti altri, sono gli oggetti venduti dall’eccentrica azienda a marchio Flying Tiger, danese di nascita e ormai affermata in tutta l’Europa e oltre nel settore dell’oggettistica. Da pochi giorni è approdata anche a Parma e si può ancora osservare una fila interminabile di persone di tutte le età davanti allo store della trafficata via D’Azeglio.

Ma qual è l’elemento che rende questa catena di negozi irresistibile? Quello che Flying Tiger fa sostanzialmente è divertire i clienti con una filosofia che si basa sul regalare un’esperienza attraverso la semplice visita dei loro punti vendita. Per far ciò, questi ultimi presentano un’accurata strutturazione che consente di riunire in una composizione organica la numerosità dei piccoli prodotti venduti che solo apparentemente sembrano non aver nulla in comune. Tutto è dominato da un arredamento tipicamente scandinavo e vi è una perfetta fusione tra il bianco delle attrezzature espositive e gli accesi colori della merce esposta, risaltata ulteriormente da numerose luci.

Le varie leve di visual merchandising utilizzate hanno comunque un altro obiettivo finale, che è quello di stimolare gli acquisti d’impulso puntando sulla parte emozionale che incide sulla decisione di acquisto. Il motore che consente tutto questo è dato anche dal layout del punto vendita che crea un percorso obbligato per il consumatore, il quale avrà la possibilità di ammirare ogni angolo e soffermarsi per provare ogni piccolo e divertente gadget. L’aspetto esperienziale è inoltre connesso alla spensierata musica di sottofondo, spesso collegata alle festività del momento (ad esempio le melodie natalizie a dicembre) e ad accurati elementi di layout merceologico che raggruppano i prodotti per occasione di consumo: l’insieme “bicchieri colorati, bandierine, piattini, e stampini per biscotti” evocherà l’idea di una festa, e così via con gli articoli di cancelleria, sportivi, per l’arredamento, per il bagno e gli alimentari. Immerso in questo mix, il consumatore non può che rimanere attratto e divertito da questi stravaganti oggettini e si ritroverà probabilmente, alla fine del suo percorso, ad aver acquistato articoli che non avrebbe mai immaginato prima del suo ingresso.

Quello che rende Flying Tiger un business ampiamente differenziato è la scelta voluta di andare controcorrente: essa ha deciso infatti, e proprio su questo si fonda il suo punto forte, di operare esclusivamente offline in un’era in cui gli e-commerce costituiscono margini di profitto rilevanti per la maggior parte delle grandi imprese affermate nei mercati internazionali.

Inoltre, fino agli inizi del 2016, i suoi top marketer non avevano la minima idea di come l’azienda avesse avuto un tale successo anche sulle piattaforme social; Klauss Vemmer, Head of Global Marketing del brand per l’appunto affermò «Abbiamo 1.4 milioni di followers e non sappiamo chi siano. È senz’altro un bene ma come dovremmo comunicare con loro? Abbiamo intrapreso campagne, ci stiamo spingendo in nuovi mercati, ma non stiamo realmente lavorando in maniera strutturata e non stiamo imparando nulla». Tale circostanza scaturiva dal fatto che il vantaggio competitivo creato era frutto di una strategia non intenzionale, scaturita dall’irresistibilità dei piccoli oggetti venduti, dal design, dal loro prezzo imbattibile e da un passaparola generale da parte dei clienti che venivano completamente conquistati dai punti vendita. Fortunatamente, nel corso dello stesso anno, Flying Tiger ha compiuto dei passi da gigante tramite adeguati piani di social media marketing che l’hanno resa attiva sulle piattaforme online, un processo di re-branding e ulteriori rafforzamenti dell’identità aziendale.

Flying Tiger è un caso di successo che dimostra come ancora oggi nel 2018 il canale fisico abbia ancora la sua importanza e come un’esperienza divertente possa risiedere alla base di un business.
E tu sei già stato rapito da questo brand?