1. NEW COKE: DAL FLOP ALLA RIBALTA

di Federica Montalbano

Tempo di lettura: 3 minuti

Tempi duri per tutti gli appassionati di serie TV, peggio per chi ha anche l’abbonamento Netflix e non riesce a smettere di guardarne una. Dopo la fine di Game of Thrones, la serie più seguita di sempre, Netflix il colosso dei servizi on demand al 66° posto della classifica Interbrand 2018 colmerà il vuoto dei “TV series addicted” con esaltanti uscite. Fra le più attese vi è la terza stagione di Stranger Things, cult per gli amanti del mistero e degli anni ’80, prevista per il 4 luglio.

Con questa uscita Netflix ha avviato una partnership con Coca-Cola, la prima di questo tipo per la società, in cui farà prender vita ai ricordi di coloro che vissero il 1985 e assistettero al crollo clamoroso della New Coke.

Conoscete la storia della New Coke? Se la risposta è no, credo che sia arrivato il momento di recuperare.

La New Coke è un chiaro esempio di fallimento nel lancio di un nuovo prodotto perché l’azienda non ha saputo interpretare i bisogni del suo mercato di riferimento. La Coca-Cola nel 1985 decise di lanciare sul mercato una nuova versione più dolce della sua ricetta, per assicurarsi un vantaggio competitivo nei confronti di Pepsi Cola. Prima di ciò venne condotta una ricerca di mercato attraverso un blind test, in cui i consumatori assaggiavano la bevanda ed esprimevano il loro gradimento. Dal blind test era emersa vincente la ricetta della New Coke, molto più dolce e simile alla sua rivale la Pepsi Cola. Dopo la sua uscita sugli scaffali di tutti i supermercati però la bevanda non piacque ai consumatori, e dopo soli 79 giorni sul mercato, la New coke fu ritirata a causa di un flop di acquisti.

Perché il brand più amato dai consumatori di bevande gassate non è riuscito a lanciare un nuovo prodotto e a farlo apprezzare al suo pubblico? Perché nel processo di scelta e acquisto del prodotto, gioca un ruolo importante l’emozione. I consumatori erano molto affezionati al brand Coca-Cola Classic e non lo avrebbero sostituito con altri. Ciò che rende Coca-Cola tale, è la forza del suo brand e il valore che ha per il consumatore, tanto da guadagnarsi il 5° posto della classifica Interbrand 2018.

L’idea di questa collaborazione nasce dai creatori di Stranger Things, Ross e Matt Duffers, che per promuovere il loro show ambientato nell’estate del 1985, hanno pensato di riproporre New Coke.

Ai microfoni di CNN Business, il presidente di Sparkling Business Unit di Coca-Cola, Stuart Kronauge, ha dichiarato che “Comprare 30 secondi di pubblicità da inserire in un video on-line non rende più come una volta- aggiunge- il mondo sta andando sempre più nella direzione dello streaming e questa partnership rappresenta per Coca-Cola un modo per raggiungere il pubblico in un panorama mediatico in evoluzione”.

In più ha aggiunto “Per noi è importante assicurarci di essere presenti laddove gli occhi, i cuori e gli spiriti dei nostri clienti si trovano”, infatti, da oggi sul canale Instagram @cocacola evincono le prime immagini della vecchia New Coke.

In un’era in cui i giovani amano i social e sono influenzati da essi, in cui lo streaming ha preso il sopravvento sulla TV, le aziende hanno deciso di adeguarsi ed optare per il product placement così da poter colpire i consumatori nel momento in cui sono più vulnerabili, senza il cellulare in mano e concentrati sulla trama della serie TV.

Questa volta però, non tutti potranno acquistare la lattina come in passato.

Coca-Cola ha prodotto 500 mila lattine vintage-style e gli sponsor saranno proprio i personaggi della ben nota serie TV. Per averle, vi sono tre modi: in regalo con la Limited-Edition Stranger Things, attraverso i distributori automatici installati in diverse città, o in omaggio acquistando il biglietto presso il World of Coca-Cola di Atlanta.

Sapete perché questo sarà un successo e non un flop come 34 anni fa? L’azienda sta giocando sul marketing della scarsità, sul costante bisogno di possedere qualcosa che nessun altro potrà avere, sul bisogno incessante dell’uomo di apparire. Chi non vorrebbe postare una foto con la famigerata lattina della serie TV se poi è anche limited edition?


2. IKEA: UNA COMUNICAZIONE DI SUCCESSO

di Roberta Fontanarosa

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Quando pensiamo a Ikea pensiamo sicuramente al leader indiscusso dell’arredamento low cost, ma il colosso svedese è noto anche per la sua strategia di comunicazione integrata facendo uso di tutti i mezzi possibili, sia digital che tradizionali.

E a proposito di questo, Ikea riesce a rendere originale anche un mezzo di comunicazione come il catalogo.

Si pensi infatti che  le copie del catalogo stampate ogni anno sono oltre  200 milioni, più del numero delle Bibbie stampate nello stesso arco di tempo. Da più voci il catalogo Ikea è considerato uno degli oggetti di comunicazione più potenti che sia stato ideato negli anni. Nel caso di Ikea il catalogo diventa interattivo, permettendo di “provare” gli arredamenti Ikea nelle stanze della propria casa tramite un’applicazione. Il catalogo non si limita a presentare i prodotti con i relativi prezzi ma racconta storie e mostra momenti della vita di tutti i giorni.

Altro mezzo tradizionale utilizzato da Ikea è l’ambient marketing. Tra le installazioni più originali c’è quella della stazione metro parigina di Medeleine che fu arredata con mobili e accessori brandizzati trasformandola in un catalogo fisico.

Fonte: insidemarketing.it

O ancora l’iniziativa di Ikea Francia di arredare con gusto anche la fermata dell’autobus, secondo  l’idea che ogni posto può diventare casa se arredato al meglio.

Fonte: insidemarketing.it

Passando al lato “social” la strategia di Ikea prevede pagine dedicate per ogni paese piuttosto che un’unica pagina globale, così da offrire una comunicazione diversificata per lingua e contenuti. La gestione autonoma permette di definire i contenuti migliori per il target di ogni paese e di affrontare al meglio le relazioni con gli utenti.

Per i 25 anni di presenza in Italia ha lanciato una campagna di storytelling su Facebook: protagoniste le icone dell’azienda come Billy la famosa libreria e la borsa blu per gli acquisti.

A proposito di quest’ultima…  Un post pubblicato per sbaglio su Facebook, con solo sei lettere casuali (“hhsdjh“), è diventato infatti nell’arco di pochi minuti uno dei contenuti più virali di sempre tra quelli della pagina. Ikea ha saputo cogliere l’occasione  producendo addirittura un’edizione speciale dell’iconica shopper blu da regalare ai fan più attivi e veloci.

Fonte: insidemarketing.it

O ancora quando Balenciaga ha lanciato una borsa che appariva chiaramente come una copia della famosa bag blu FRAKTA , ecco come rispondeva Ikea:

Fonte: insidemarketing.it

Ikea grazie allo storytelling riesce a raccontare delle storie usate come strategie commerciali e persuasive, in grado di veicolare determinati valori e caratteristiche. La creazione dell’hahstag #siamofattipercambiare ripropone questa capacità del brand di adattarsi ai tempi che cambiano, proprio come i suoi mobili moderni e a basso costo, e di soddisfare le esigenze di tutte le persone, che possono trovare nella proposta Ikea la soluzione a qualsiasi richiesta.

E come non citare il Real-time marketing a cui Ikea fa spesso ricorso.

Uno degli ultimi riguarda il tanto discusso caso Bansky e l’auto distruzione di una sua opera. Ikea sempre sul pezzo ha pensato a un set stampa + cornice + forbici per dare a tutti la possibilità di replicare l’ultima moda!

Fonte: insidemarketing.it

O ancora quando morì uno dei personaggi più amati di Game of Thrones ecco cosa pubblicava Ikea:

Fonte: insidemarketing.it

Tutti questi esempi ci fanno capire come Ikea sia sempre al passo con i tempi, la sua comunicazione infatti è sempre originale, creativa, ironica e mai scontata!

 


3. AR: LA NUOVA FRONTIERA DELL'ADV

di Laura Marina Popa

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Quante volte ci è capitato di utilizzare uno dei filtri interattivi di Instagram o di Snapchat?

Questi sono perfetti esempi di realtà aumentata (AR), una tecnologia ormai ben affermata. I primi esempi risalgono ai primi anni Novanta, a seguito delle ricerche effettuate in campo militare, su dispositivi in grado di visualizzare nei visori dei piloti americani informazioni virtuali relative ad obiettivi o indicazioni di volo.

Fonte: standard.co.uk

La realtà aumentata non è da confondere con la realtà virtuale che, al contrario, crea un ambiente totalmente artificiale e digitale. Avvalendosi dell’uso di tecnologie che aumentano la verosimiglianza del virtuale, dona l’illusione di trovarsi realmente immersi in uno scenario reale. Con la AR non si cerca di ricreare un intero universo virtuale, ma si sovrappongono solo alcuni elementi al mondo reale, che rimane il contesto principale della visione. Più semplicemente, la realtà aumentata non è altro che la realtà che ci circonda, arricchita da animazioni e contenuti digitali.

Nel 2014, Mark Zuckerberg acquistò Oculus, azienda nota per le sue tecnologie di realtà virtuale.

“Con Oculus c’è la possibilità di creare la piattaforma più social di sempre, e cambiare il nostro modo di lavorare, giocare e comunicare” ha dichiarato il noto imprenditore.

Ecco come la realtà aumentata è sbarcata sui nostri dispositivi e sulle piattaforme social, da quel momento il modo di comunicare di molti brand si è trasformato. Questo nuovo tipo di advertising ha consentito agli utenti di provare i prodotti attraverso l’uso della fotocamera frontale dello smartphone potenziata dalla realtà aumentata.

Fonte: socialmediamarketing.it

Una delle prime aziende a sfruttare questa funzionalità su Facebook fu Michael Kors.  Una particolarità di questo tipo di ADV è la sua innovativa e originale Call To Action, chiamata “Tap To Try On”, visibile al centro della foto. Basta un tap sul viso della modella e attraverso l’uso della fotocamera frontale e il dispositivo utilizzato proietterà il prodotto sul nostro viso.

Come abbiamo già detto questa nuova tecnologia ha aperto le porte per un nuovo modo di comunicare, basti pensare a tutti gli e-commerce di accessori, vestiti, gioielli e moda presenti nel mondo: è nata la possibilità di sviluppare nuove tipologie di ADV, di stimolare creatività degli editor e SMM che sono stati capaci di sorprendere l’audience con uno strumento del tutto innovativo.

Ma da Facebook, su cui Mark ha testato quest’innovazione, passiamo ad Instagram dove la tecnologia è arrivata solamente nel 2018.

Una delle prime a sfruttare i filtri AR personalizzati per Instagram Stories è stata Kylie Jenner per la sua linea personale di cosmetici. L’influencer ha creato il suo filtro personalizzato “Kylie Cosmetic AR” utilizzabile nelle Stories, attraverso il quale possibile provare virtualmente i diversi rossetti (come Candy K e Glitz) e testare a tonalità che si adatta meglio al proprio tono di pelle prima di effettuare l’acquisto.

Questo è un perfetto esempio di come le aziende potrebbero utilizzare i filtri AR personalizzati.

Fonte: later.com

Non solo i filtri sono divertenti da usare, ma rappresentano anche un ottimo metodo di passaparola. Chi utilizza il filtro permette anche agli altri utenti di “collezionarlo” ed utilizzarlo, generando un flusso di pubblicità involontaria in cui sono gli utenti stessi a pubblicizzare il brand. Inoltre, è super utile se si sta effettivamente cercando di acquistare il prodotto.

Ci sono molte ragioni per cui AR può essere un potente strumento di marketing per le imprese, il principale è la pubblicità dei propri brand da parte delle aziende in modo del tutto innovativo, ovvero attraverso un effetto wow. Come suggerito dal nome del filtro stesso, tramite i filtri le aziende offrono un servizio che supera le aspettative e che crei meraviglia, lasciando gli utenti piacevolmente sorpresi. Questo permette di focalizzare l’attenzione dell’audience e sull’azienda in maniera positiva e contribuisce alla costruzione di una forte reputazione del brand. Mettendo in pratica l’effetto wow si attiverà un processo di fidelizzazione dei clienti già esistenti e di acquisirne di nuovi, perché si sa che la migliore pubblicità è proprio il passaparola.

Ci sono innumerevoli possibili applicazioni per l’AR: marche di cosmetici possono utilizzare la tecnologia per permettere ai loro seguaci, attraverso la funzionalità  “Try On” di provare il cosmetico, brand di arredamento possono utilizzarla per mostrare come sarebbero i loro prodotti nelle case della gente, e nel settore abbigliamento invece si può utilizzare per creare camerini virtuali, permettendo alle persone di provare camicie, occhiali da sole, o interi abiti per vedere come si adatta alla loro forma e stile.

Utilizzando l’AR le imprese possono connettersi con i clienti e anche diventare virali su Instagram!


4. GOOGLE "ROMPE" CON HUAWEI

di Nunzio Salvatore Minissale

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L’annuncio della “rottura” tra Google e Huawei ha monopolizzato per un po’ il dibattito sul web (ma anche nei bar di tutta Italia) creando panico e incertezza tra gli utenti e un insieme di domande, scandite come una litania, riassumibili nel più classico “e adesso che succederà?”. Proviamo a rispondere, ripercorrendo i passaggi fondamentali di questa vicenda e tenendo conto sempre della complessità che questo tema, ancora in divenire, porta con sé.

Fonte: forbes.it

Tutto comincia la mattina del 20 maggio (ora italiana) con l’annuncio da parte di Google, che produce il sistema operativo Android (quello che fa funzionare la stragrande maggioranza degli smartphone che utilizziamo) della sospensione dei rapporti con la cinese Huawei, un colosso i cui volumi di produzione sono secondi solamente a Samsung.

La sospensione della licenza per l’utilizzo dei servizi Android è dovuta all’applicazione di un ordine esecutivo, diramato cinque giorni prima dalla Casa Bianca, che sostanzialmente vieta alle aziende americane di vendere i propri prodotti ad una serie di aziende tech cinesi, (inserite per decisione del dipartimento del Commercio degli Stati Uniti nella cosiddetta “Entity List”) senza una preventiva approvazione da parte del governo. Il tutto in una cornice di crescente tensione politico-economica tra USA e Cina, che sembrano aver trovato il proprio playing field proprio sul terreno dell’innovazione tecnologica e delle telecomunicazioni: bisogna infatti ricordarsi che proprio Huawei è stata recentemente accusata da Donald Trump di fare spionaggio per conto del governo cinese, e l’azienda, che oltre agli smartphone produce sistemi di telecomunicazione (ripetitori cellulari, cavi sottomarini per Internet) ed è partner di numerosi operatori mobili per la costruzione delle infrastrutture della rete 5G, è stata praticamente messa al bando e non può fare affari nel mercato statunitense.

A seguito della mole di richieste di chiarimento da parte dell’utenza, preoccupata delle ripercussioni che una decisione del genere avrebbe potuto avere, in concreto, sulla user experience di tutti i possessori di uno Huawei o di un Honor (altro brand di smartphone di proprietà dell’azienda), non sono mancate dichiarazioni “rassicuranti” da entrambe le parti:

<<Ci stiamo conformando all'ordine e stiamo valutando le ripercussioni. Per gli utenti dei nostri servizi, Google Play e le protezioni di sicurezza di Google Play Protect continueranno a funzionare sui dispositivi Huawei esistenti>> ha detto un portavoce di Google.

Fonte: twitter.it

Huawei ha invece diffuso un breve comunicato: <<Huawei ha dato un contributo sostanziale per lo sviluppo e la crescita di Android in tutto il mondo. Come uno dei partner globali chiave per Android, abbiamo lavorato a stretto contatto con la sua piattaforma per sviluppare un ecosistema di cui beneficiassero sia gli utenti sia il settore. Huawei continuerà a fornire aggiornamenti di sicurezza e servizi a tutti gli smartphone e tablet esistenti di Huawei e del marchio Honor, sia per quelli già venduti sia per quelli ancora in magazzino. Continueremo a costruire un ecosistema sicuro e sostenibile, in modo da offrire la migliore esperienza ai nostri utenti su scala globale.>>

Tali esternazioni sono però apparse piuttosto vaghe, e di certo non in grado di rispondere alla più annosa delle questioni: cosa succederà ai prodotti che verranno venduti in futuro? e a quelli esistenti, quando dovranno essere aggiornati?

A queste domande manca ancora una risposta certa, e le ipotesi messe in campo da opinionisti ed esperti sono molte: sicuramente Huawei potrà continuare a utilizzare la versione libera (open source) di Android, messa a disposizione tramite l’Android Open Source Project (AOSP). È una versione base del sistema operativo, sulla quale poi Google costruisce quella che viene poi installata sugli smartphone dei principali produttori, con accordi e licenze d’uso. AOSP comprende diverse funzionalità, ma non tutte quelle che Google offre come “servizi aggiuntivi”, tramite le sue applicazioni, e che gli utenti sono ormai abituati a trovarsi su uno smartphone Android. Oltre alla mancanza di alcuni servizi di Google, Huawei potrebbe avere problemi a diffondere gli aggiornamenti di sicurezza per i suoi dispositivi, dovendo attendere che siano disponibili su AOSP e dovendo poi provvedere autonomamente alla loro diffusione.

La soluzione definitiva potrebbe invece essere il lancio di un sistema operativo proprio, al quale il colosso cinese sta lavorando già da anni e che potrebbe essere pronto per la fine del 2019:

<<Non vogliamo arrivare a questo, ma saremo costretti a causa del governo degli Stati Uniti>> ha detto all’emittente CNBC Richard Yu Chengdong, CEO of the Consumer BG Huawei <<credo che questi eventi non influenzeranno negativamente solo noi, ma anche le compagnie statunitensi, poiché supportiamo gli affari degli USA.>>

In effetti, pare che la vicenda non coinvolga soltanto Google, ma (stando a fonti raccolte da Bloomberg) anche aziende produttrici di microprocessori quali Intel, Qualcomm, Xilinx e Broadcom, che avrebbero comunicato ai loro dipendenti di congelare il supporto a Huawei fino a nuovo ordine. Se quindi da un lato l’azienda asiatica si potrebbe trovare presto senza approvvigionamenti (avendo dichiarato di avere scorte di prodotto sufficienti per soli 3 mesi) dall’altro vi è un settore chiave dell’industria USA che perde un importantissimo cliente straniero. Ed è difficile prevedere l’impatto che questo avrà in termini occupazionali e di indotto.

Fonte: repubblica.it

Sicuramente tutti i player coinvolti dovranno operare in fretta e trovare delle soluzioni alternative, cosa che può essere facilitata dalla decisione del Dipartimento del Commercio di posticipare di 90 giorni l‘applicazione del “bando”. Arrivata a 24 ore di distanza dalla prima (e dopo il prevedibile tonfo del Nasdaq all’apertura di lunedì 21 maggio), questa scelta è stata ufficialmente giustificata dal Segretario al Commercio Wilbur Ross: <<“La Temporary General License concede agli operatori il tempo di sottoscrivere altri accordi e (dà) modo al Dipartimento per determinare le misure a lungo termine che dovranno essere adottate  per calmierare i disagi per gli americani e per i fornitori di telecomunicazioni che attualmente si affidano alle apparecchiature Huawei per servizi critici>>.  Altre voci e indiscrezioni parlano però di una silenziosa ritorsione cinese, che riguarderebbe il mercato delle cosiddette “terre rare”, materiale di fondamentale importanza per l’industria tech, soprattutto quella legata ai microconduttori. Di fatto, l‘ingrediente base per pc, laptop, tablet e smartphone. Ingrediente che gli Stati Uniti importano, per l’80%, proprio dalla Cina. Un aumento dei dazi o una limitazione alle esportazioni da parte del governo di Pechino potrebbero mettere in ginocchio l’intero settore, ed è forse questa la vera ragione che ha spinto la Casa Bianca a ritardare l’entrata in vigore della direttiva.

Qualunque sarà l’evolversi di questa complicata vicenda (alla quale potrebbero essersi aggiunti nuovi tasselli nel momento in cui leggerete questo articolo), una cosa è certa: nel mondo globalizzato in cui viviamo, anche vicende che sembrano distanti anni luce da noi (come le tensioni crescenti tra USA e Cina potrebbero apparire) hanno ripercussioni anche importanti sulla nostra vita quotidiana, persino su gesti che ci appaiono scontati come guardare un video sull’app di Youtube o scaricare qualcosa dal Play Store di Google, o ancora utilizzare Google Maps per raggiungere il ristorante dove abbiamo prenotato per festeggiare il nostro anniversario. Gesti semplici, ma allo stesso tempo permessi da una globalizzazione che oggi mostra qualche crepa, a ricordarci che ogni cosa è una conquista, e non bisogna dare nulla per scontato.


5. MUKAKO: UN E-COMMERCE TUTTO AL FEMMINILE

di Veronica Amato 

Tempo di lettura: 2 minuti

Mukako, azienda al femminile e operante nella cura e crescita del bambino, nasce da un’idea di Martina Cusano, laureata all’Università Bocconi, con un MBA ad Harvard e prestigiose esperienze lavorative alle spalle.

Fonte: Mukako.com

L’imprenditrice, che nel tempo è anche diventata mamma, ha deciso di dedicarsi al progetto Mukako insieme ad Elisa Tattoni, finlandese, conosciuta in Spagna mentre ricopriva un ruolo in Privalia.

Il progetto Mukako è nato da esigenze pratiche e bisogni funzionali, che scaturiscono dall’essere mamma come il bisogno di non rimanere senza pannolini.

La missione di Mukako risiede nel “prendersi cura dei genitori” cercando di eguagliare il concetto di prodotto e servizio anche avvalendosi della traduzione finlandese di Mukako In “Scatola che ti accompagna” e sostanziandosi in una fornitura di un box al genitore di una quantità di pannolini ideale e necessaria al figlio, calcolata tramite un algoritmo basato su peso, sesso e età. Le variabili possono essere modificate con una sezione specifica nel sito online, durante tutta la crescita del bambino.  

E se è vero che internet e la rete in generale, agevolano il soddisfacimento di grappoli di bisogni, nasce per Mukako l’esigenza di non soffermarsi al singolo pannolino, piuttosto di sviluppare un’offerta che vanta più di 10.000 prodotti che variano da quelli specifici per la prima infanzia, ai giocattoli fino ai prodotti per l’igiene.

Inoltre, il Team Mukako è riuscito a sviluppare MUtable, il tavolo multi-gioco, sempre acquistabile dal sito, che consente al bambino di cimentarsi in svariate attività e giochi creativi, tramite l’inserimento di lavagne al centro dello stesso.

Fonte: Mukako.com

A valorizzare ancor di più MUtable è l’elemento di praticità grazie alla sacca posta al di sotto che svolge la funzione di porta giochi, oppure il portacolori incorporato nel tavolino stesso. Infine, altre componenti che concorrono alla creazione di valore di MUtable è la possibilità di scelta tra varie tonalità di colore per meglio adattarsi ai desideri dei clienti e quella di incorporare un’estensione che consente al bambino di giocare in compagnia.

Senz’altro i prodotti innovativi e di design proposti dall’azienda, nonché i valori in cui credono le 2 fondatrici e sui quali hanno fondato Mukako, hanno consentito di passare dai 800.000€ del 2016 a circo 4Mln di fatturato nel 2017.

Tutte queste operazioni di successo hanno permesso all’azienda di farsi strada verso la crescita internazionale attuando una delocalizzazione delle attività e destinando la produzione in Cina con magazzini in Italia, USA e agenzie di marketing a Londra e Milano.

Riveste un ruolo importante il team, che ha una particolare sensibilità ai clienti e ai prodotti venduti, e la piattaforma online, ossia il canale principale con cui l’azienda presenta, propone, comunica le alternative e concretizza la vendita fidelizzando i clienti e accrescendo la Brand Reputation.

Gran bello esempio di fare impresa!

 


1. NEXT FUTURE TRANSPORTATION: IL MEZZO DI TRASPORTO DEL FUTURO PARLA ITALIANO

di Dario Consoli

tempo di lettura: 3 minuti

Quante volte vi siete fermati a riflettere ed immaginare come saranno le città del futuro? Magari subito dopo aver visto un film di fantascienza, avrete sicuramente sognato di spostarvi su strade a più piani percorse da auto volanti e autobus elettrici componibili. Di sicuro vi siete immedesimati in un futuro dove potrete raggiungere il vostro posto di lavoro o l’Università con mezzi ipertecnologici, antitraffico, antigravità, super veloci, magari ai limiti del teletrasporto.

Ma vi siete mai chiesti quanto in realtà è vicino questo futuro?

Fonte: Linkiesta.it

Tommaso Gecchelin, trentaduenne padovano, sta rivoluzionando il mondo dei trasporti pubblici, anticipando quelle che possono essere state, fino ad oggi, le nostre fantasie sulle Smart City.  Laureato in Fisica all’Università di Padova e in Disegno industriale allo IUAV di Venezia, Tommaso è l’ideatore di un rivoluzionario sistema di trasporto elettrico e a guida autonoma fatto di una serie di capsule o pod in grado di dividersi e assemblarsi a seconda della situazione, delle esigenze dei passeggeri e della tipologia di trasporti a cui sono destinati. Un autobus che si compone e scompone in base al numero dei passeggeri e alla loro destinazione, in grado di venire a prenderti sotto casa. Il tutto gestibile attraverso una semplice app.

Fantascienza?

È quello che hanno pensato in Italia; un progetto troppo ambizioso, troppo futuristico. Ma non per lo sceicco di Dubai che ha subito trovato l’idea allettante e ha invitato il giovane genio nostrano a presentare il progetto ad Expo 2020.

Ma andiamo per ordine.

Quando Tommaso presentava Next Future Transportation ad investitori e aziende italiane, c’era stato subito molto scetticismo: “alcune aziende cui abbiamo cercato di far fare il primo prototipo funzionante ci hanno sparato delle cifre assurde, per chi ci ha risposto. Altre ci hanno semplicemente detto che era un progetto non fattibile, troppo futuristico”. Fu cosi che allora decise di rimboccarsi le maniche e realizzare tutto internamente: Gecchelin ha riunito un team interamente italiano in grado di spendere le proprie competenze per poter dare vita a quello che sembrava destinato a rimanere un semplice sogno. Nel salotto di casa sua iniziavano a prendere vita i primi mini-prototipi. “Per realizzare un progetto del genere servono competenze di robotica, informatica avanzata, ottica. È stato possibile solo creando un team, per altro nel nostro caso interamente padovano” (Tommaso Gecchelin, fondatore di Next Future Transportation).

Fonte: LaRepubblica.it

Nel 2015, grazie al co-fondatore di NFT, Emmanuele Spera, tutto ha iniziato a prendere forma; l’invenzione di Gecchelin gli ha permesso di aprire un’azienda, con sede nella Silicon Valley, che vede impiegate una decina di dipendenti. Dal Veneto alla Silicon Valley, dunque, passando per gli Emirati. Già, perché anche quando Next Future Transportation era ancora un embrione c’era qualcuno che scommetteva sull’idea. Era il 2016 e Tommaso presentava prototipi in scala 1:10 della sua invenzione al Dubai Future Accelerator, davanti a investitori pubblici e privati. Ed è li che è riuscito a fare centro! L’idea è piaciuta a tal punto che Dubai utilizzerà Next Future Transportation per l’Expo 2020.

Ma come funziona questo meraviglioso autobus futuristico?

Si tratta di singoli moduli che si uniscono e si dividono a seconda delle necessità. Ciascun veicolo modulare è realizzato in alluminio leggero e resistente, misura due metri in larghezza e mezzo metro in lunghezza, può ospitare fino a dieci passeggeri ed è alimentato ad energia elettrica. La particolarità del mezzo è quella di avere la capacità, grazie ad un braccio meccanico, di ricongiungersi agli altri moduli in movimento sfruttando un sistema di allineamento ottico. Si tratta di una soluzione pensata principalmente per ridurre il traffico in città, ma si trae un vantaggio anche in ottica sicurezza: in caso di curve strette ogni singolo pezzo è in grado di staccarsi leggermente e rimanere allineato, senza che nessuna auto si disponga tra i moduli. Ma le particolarità non terminano qui.

Fonte: LaRepubblica.it

Dall’inizio alla fine, la corsa è gestita da un App e da un algoritmo che raggruppa i passeggeri in base alla destinazione che devono raggiungere. Tramite lo smartphone si seleziona la meta, si sale su un veicolo (che vi viene a prendere ovunque vi troviate) e dopo ogni singolo modulo va da sé. Nelle arterie principali questi veicoli poi si riuniscono, agganciandosi, e l’applicazione ci suggerirà in quale modulo andarsi a sedere. Le persone cosi si muovono tra un veicolo e l’altro per andare a concentrarsi solo in quelli che giungono nella propria destinazione. In tal modo tutti i veicoli di coda rimangono liberi per andare a prendere altre persone. L’algoritmo dunque serve proprio a congiungere veicoli e persone al cui interno le destinazioni sono identiche.

L’idea è nata anni fa, quando, durante la mia laurea in Fisica a Padova, ho iniziato a studiare le dinamiche del traffico. Era chiaro dalle simulazioni che le persone, una in ogni veicolo, si muovessero congestionando soprattutto le arterie principali in direzione del centro, nel commuting mattutino. L’idea era quindi di attuare una specie di car pooling dinamico, tra auto che spontaneamente si trovano sulle arterie principali, dirette verso la stessa destinazione”. Spiega il giovane Gecchelin a La Stampa.

Fonte: LaRepubblica.it

Una rivoluzione nel mondo dei trasporti che in Europa potremmo sperimentare forse tra una decina di anni. Ambizioso ma nulla di impossibile, soprattutto perché la storia di Tommaso ci insegna proprio questo. Bisogna sempre credere nei propri sogni perché questi si realizzano solo quando ci si crede fermamente e si ha il coraggio di mettersi in gioco.


2. LA RIVOLUZIONE DIGITALE DI LUSH

di Manuela Fiku

tempo di lettura: 3 minuti

This isn’t the end, it’s just the start of something new.

Si concludeva così l’annuncio fatto in contemporanea su Facebook, Instagram e Twitter da Lush UK.

Fonte: GDO week

Per chi non lo sapesse, Lush è un’azienda cosmetica conosciuta soprattutto per la vendita di prodotti sfusi.

Negli ultimi giorni però, le scelte controcorrente dell’azienda non hanno riguardato né l’assenza di packaging né le caratteristiche dei prodotti, bensì la comunicazione digital, in particolare i social.

Fonte: profilo instagram Lush UK

“Siamo stanchi di combattere contro gli algoritmi e non vogliamo pagare per comparire nel newsfeed. Abbiamo deciso quindi che è ora di dire addio ad alcuni dei nostri canali social e di aprire invece la conversazione tra te e noi

Con pagine da oltre mezzo milione di followers, Lush sembrava voler dire addio ai social.

Certo la polemica contro le sponsorizzate è lecita: raggiungere il proprio target attraverso contenuti organici è sempre più un miraggio.

Ma vale davvero la pena di abbandonare tutto?

Come spiega Gianluca Diegoli, esperto di digital marketing, consulente, docente alla IULM, e co-founder di Digital Update: le risorse sono tante. La gestione di una pagina implica foto e video che continuano a essere cercati e utilizzati nel tempo, ma ricordiamoci che questa è solo una parte: messaggi, bot, storie e così via, sono tutti elementi che possono avere un loro significato.

“In un’epoca in cui Facebook sta diventando praticamente presente in tutte le parti del funnel, dalla parte di awareness, alla parte di consideration, fino alla parte di remarketing, non lo so, uscirne mi sembra un po’ un atto eroico che però sacrifica nel lungo periodo una potenzialità”

Dello stesso parere sembra essere Steven Lo Presti, esperto e consulente di marketing, Founder di Marketing Ignorante, il quale spiega come rinunciare a questi canali significhi perdere un’opportunità. Non solo. Il fatto che l’azienda abbia dichiarato di raggiungere solo il 6% dei suoi followers fa riflettere sui contenuti pubblicati.

“È come ammettere di avere difficoltà nel creare contenuti coinvolgenti senza l’utilizzo di sponsorizzate”

Digitale ovviamente non significa solo social media. Il sito ad esempio è un altro importante canale che l’azienda sfrutta al meglio. Come emerge su Gartner, il sito di Lush è tra i migliori della categoria, ma risulta tuttora ricco di rimandi social (a partire dagli hashtag personalizzati).

Ci sono dunque dubbi sul reale abbandono dei social media.

Rileggendo il post di annuncio, l’enfasi ricade più volte sul concetto di community poiché saranno gli amanti del brand a creare contenuti. A confermarlo arriva il nuovo hashtag lanciato alla fine: #LushCommunity

Più lavoro per gli influencer dunque? Forse, ma per ora Customer Care e Community Management sembrano essere il centro di questa nuova strategia basata su canali owned.

Sito e negozio sono dunque i canali principali in quest’era di integrazione tra online e offline su cui l’azienda vuole concentrare le sue forze.

Nel Regno Unito il tutto è arrivato inaspettatamente e, mentre Lush Nord America ha tweettato che sarebbe rimasto in funzione, in Italia i social rimangono attivi come prima, ma emerge comunque un cambiamento in quella direzione.

“Il canale principale per fare brand awareness è il nostro sito web che è anche la nostra piattaforma di e-commerce; poi utilizziamo parte dei canali social. Ma quello che dobbiamo proprio raccontare di LUSH è la capacità di coinvolgere la community non solo attraverso dei canali istituzionali (sito web e social) ma anche attraverso i profili dei fondatori, delle persone che creano i nostri prodotti in giro per il mondo.”

Ha raccontato qualche giorno fa Rossella Campisi, Digital Manager di LUSH.

Perché la community parte proprio dall’interno, dai dipendenti stessi, che sui loro profili manifestano l’entusiasmo e l’orgoglio di essere parte di questa azienda e parte della Lush Commuity.

Un marketing relazionale che si integra al personal branding dello staff.

Un negozio che viene valorizzato attraverso eventi ed esperienze instore.

Un sito che diventa il canale principale, utilizzato per mostrare, vendere, dialogare e creare innovazione (vedi LushLab: prodotti che nascono dall’interazione tra la community e l’azienda).

Meno social, più socialità.

Meno pubblicazioni, più ascolto.

Meno intermediari, più canali di proprietà.

Le scelte di Lush, benchè incomprese inizialmente, si sono rivelate essere in passato scelte vincenti. Potremo dire lo stesso di questo cambio di rotta digitale?

Non resta che attendere: This isn’t the end, it’s just the start of something new.


3. WALKMAN: IL LETTORE MUSICALE CHE HA SEGNATO UN' EPOCA

di Federica Montalbano

tempo di lettura: 4 minuti

Le persone che hanno cambiato il nostro modo di agire, pensare ed acquistare, nel corso della storia dell’uomo, sono poche. I millennials potranno attribuire questo merito a Steve Jobs co-fondatore di Apple, Jeff Bezos fondatore di Amazon o Marck Zuckerberg co-fondatore di Facebook, ma negli anni ’70 chi poteva cambiare il mondo?

Fonte: Corriere della Sera

Avvertita l’esigenza dei giovani di poter ascoltare musica ovunque si trovassero Akio Morita, co-fondatore di Sony, sfidò la sua azienda e senza effettuare precedenti ricerche di mercato, cambiò il modo di ascoltare musica, cambiò lo stile di vita dei giovani dell’epoca e lanciò sul mercato il Walkman.

Il TPS-L2, un parallelepipedo blu e argento dotato di cuffie con spugnette colorate, aveva la capacità di poter essere agganciato alla cintura e di poter portare sempre con sé la musica che più piaceva.

Per noi nativi digitali che oggi grazie al nostro smartphone possiamo ascoltare musica in qualsiasi momento della giornata, mentre camminiamo, siamo in viaggio, siamo in palestra o corriamo al parco, è la quotidianità, ma negli anni ’70 non era così. Grazie a questo lettore musicale, tutti potevano ricavarsi un momento di intimità personale, cosa che prima di allora non era possibile.

Antecedente questa rivoluzionaria svolta vi era il Sony TC-D5, ingombrante mangiacassette, che insieme al Walkman viene celebrato in tutti i musei di design come prodotti che hanno caratterizzato un’epoca.

Fonte: Corriere della Sera

Quando si lancia un nuovo prodotto sul mercato bisogna avere ben chiaro il target di riferimento e questo Morita lo aveva già identificato. “Questo prodotto soddisferà i giovani che vogliono ascoltare musica tutto il giorno, lo porteranno sempre con loro e non gli interesseranno le funzioni di registrazione. Se lo dotiamo di un sistema per la riproduzione solo tramite cuffia, sarà un successo”, disse nel 1979 e così fu.

Il 1° luglio 1979 venne lanciato sul mercato il Walkman venduto a 39.433,58 yen, ovvero 400 € di oggi. Sony prevedeva di vendere 5mila unità nel primo mese ma si accorse subito di aver sbagliato le previsioni, perché nei primi due mesi vennero venduti 50mila pezzi. Non c’è da stupirsi di questi risultati visto che nel 2007 dopo un anno dal lancio, Steve Jobs aveva venduto 1,4 milioni di iPhone.

Il Walkman è il precursore del vecchio iPod della Apple, ormai superato dall’iPhone, ma ciò che accomuna questi due prodotti è il fatto di aver segnato un’epoca, di aver cambiato il modo di vivere, gli stili di vita e la visione che i giovani del tempo avevano. Chi si sarebbe mai potuto immaginare di poter leggere le e-mail direttamente dal proprio cellulare in qualsiasi posto si trovasse? Di poter ascoltare i brani che più piacciono senza dover per forza acquistare l’intero cd? In passato sembrava utopia, oggi invece è realtà.

Fonte: Corriere della Sera

Ciò che queste due aziende hanno venduto ai giovani è stata l’esperienza. Oggi come allora il consumatore ricerca esperienze, vuole vivere emozioni, momenti nuovi e unici e le aziende che vendono questo sono quelle che hanno maggior successo sul mercato. Amazon non vende beni, vende la comodità di poter acquistare un prodotto e vederselo consegnare a casa nel minor tempo possibile. Apple non vende iPhone, offre uno status, una community di appartenenza a tutti quei giovani che nelle giornate di lancio dei singoli prodotti campeggiano davanti agli Apple store, ma anche a quei giovani meno wild che acquistano il proprio smartphone successivamente alla data di uscita in store. Così la Sony nel lontano 1979 non vendette un semplice lettore musicale, ma la possibilità di portare la musica allacciata alla propria cintura, di poterla condividere con le persone che ci stavano accanto o semplicemente poter vivere un momento unico da soli  permettendo di estraniarsi dal contesto.

Il Walkman ha segnato un’era, è stato protagonista delle migliori storie d’amore come quella di Vic e Mathieu ne “Il tempo delle mele” (1980). Chi non ricorda quella scena in cui lui le mette le cuffie e ballano insieme sulle note di Reality di Richard Sanderson? Quanti giovani ragazze non hanno sognato una scena del genere dopo aver inserito la cassetta della colonna sonora del film nel loro walkman?

Fonte: Corriere della Sera

Questo rivoluzionario” strumento” ha rappresentato intere generazioni, rivoluzionato il mondo musicale ed è stato per un paio di decenni “l’oggetto” maggiormente ricercato, icona indiscussa delle giovani generazioni che ne facevano un culto di aggregazione.

Ma come ogni importante invenzione del nostro secolo, la strada non sempre risulta scorrevole e priva di problematiche.

Infatti a far causa alla Sony fu Andreas Pavel che, precedentemente a Morita, aveva brevettato un apparecchio, “Stereobelt”, da allacciare alla cintura. Nonostante ciò non gli fu garantita l’esclusività pertanto possiamo dire che dalla loro genialità abbiamo avuto modo di vivere delle esperienze meravigliose, tutte segnate da una colonna sonora “portatile”. E a questo punto non possiamo fare a meno di chiederci e fantasticare su: Quale sarà la prossima invenzione in grado di cambiarci e regalarci magiche esperienze?

 

 


4. HUTCH: COME TU MI VUOI

di Alessia Pizzuti

tempo di lettura: 3 minuti

Customizzare, personalizzare, in poche parole rendere unico il capo che si indossa o il bene che si usa oggi sembra valere di più del prodotto in questione. L’ evoluzione di questi ultimi anni sembra dettata dal frequente scontro tra una produzione massificata e una tipicamente personalizzata, una tendenza che si riversa in tutti gli ambiti, ancor di più in quello digitale.

Fonte: Global Dating Insights

In quest’ ottica, la parola d’ordine dell’ultimo Salone del Mobile in Italia è stata personalizzazione, degli ambienti, degli spazi e dell’arredamento ad esso appartenente. Appare però evidente la difficoltà per il consumatore nella vita quotidiana di trovare un professionista che con il suo lavoro possa rispecchiare a pieno i gusti dei suoi clienti, nella possibilità di trovare soluzioni d’arredo che possano soddisfarne non solo l’utilità ma anche il senso estetico.

Trovano perciò terreno fertile alcuni esperimenti preliminari come Zoom Interiors e Homee, che avevano, molto semplicisticamente, l’intento di creare una sorta di community che promuovesse un dialogo continuo tra cliente e designer. Il lancio di queste piattaforme ebbe un riscontro positivo per discutere dei lavori commissionati ma trovò ben presto limite nell’esigenza dell’interessato a vedere rapidamente una concreta realizzazione dei progetti.

Fonte: businessinsider.com

Nasce così la start up americana Hutch, da un’idea di Beatrice Fischel-Bock, attuale co-fondatrice e CEO, che si propone di superare il vincolo della ricerca di un designer trasformando l’utente dell’app in designer stesso. La nuova app si differenzia dalle sue concorrenti perché punta su una componente visual ad alta definizione e una funzionalità pre-e-dopo che consente di avere un concreto paragone tra l’immagine inviata e il successivo lavoro di design virtuale. Secondo gli utenti è una soluzione più rapida e meno dispendiosa, automatizzata che permette di adottare soluzioni semplici su idee di progettazione e arredamento.

L’ acquisto degli articoli, dal mobile  alla piccola oggettistica, può dirsi compiuta direttamente nell’app. Gli articoli selezionati sullo schermo possono essere spediti direttamente da un produttore o in alternativa da un rivenditore che ne occulta il brand d’origine etichettandoli in bianco. La peculiarità del meccanismo è che nella maggior parte dei casi non si conosce realmente la marca di mobili fin quando non arriverà a destinazione. Sebbene questo possa sembrare un limite alla trasparenza verso il consumatore, in realtà non è un elemento che gioca a sfavore dell’acquirente, o almeno così sembra per l’attuale target di riferimento del business (studenti e giovani professionisti) che non hanno tipicamente preferenze di brand definite ma piuttosto hanno a cuore che i prodotti assolvano alla funzionalità e le caratteristiche esplicitate durante la compravendita.

Fonte: Global Dating Insights

Hutch è il frutto di un progetto di squadra dove più menti hanno lavorato su qualcosa di differente per scoprire di volta in volta limiti, angolazioni nuove e rimanere sempre aggiornati sulle tendenze del mercato.

Quest’app non è ancora ufficialmente available in Italia nonostante risulti già su tutti i Play Store Android e IOS.

È curioso pensare come ci siano tutti i buoni presupposti affinchè possa avere successo anche nel territorio italiano, nota patria del design industriale e artigianale, da sempre punto di riferimento del contesto europeo in fatto di stile.

Quella di oggi è una continua lotta tra un design che personalizza e uniforma allo stesso tempo. È una sfida. Il fatto che arrivi un’app di questo stampo in Italia deve essere uno spunto di riflessione su come domanda e offerta si siano plasmate in evoluzione delle preferenze del consumatore nel tempo. Alcuni esperti pensavano che non sarebbe mai potuto accadere, che l’autorità di alcune professioni cosiddette “artigianali” potessero rimanere per sempre soprattutto in una cultura d’impresa italiana che da sempre ha dimostrato nel settore la sua vocazione. Stiamo assistendo a un cambiamento di rotta?